venerdì 8 maggio 2015

La costruzione della menzogna e il coraggio di opporsi


Nel suo incantevole "Dalle parti degli infedeli", Leonardo Sciascia - sulla base di documenti inediti contraddistinti da massima segretezza (SUB SECRETO S. UFFICII)  -  ricostruisce la vicenda di monsignor Ficarra, vescovo siciliano originario di Canicattì. Il buon vescovo, accusato dai notabili DC di non aver fatto nulla per evitare la sconfitta del loro partito alle elezioni amministrative del 1946, venne a lungo perseguitato dalla Curia romana che, fabbricando o avallando menzogne, ne pretendeva la rinuncia alla diocesi di Patti.
Il lungo braccio di ferro tra il vescovo di Patti, disposto all'obbedienza ma non rassegnato a subire l'ingiustizia e convalidare la menzogna e il Card. Piazza, Prefetto della Sacra Congregazione Concistoriale, durò per oltre dieci anni.
Il cristiano amore alla verità - scrive Sciascia - e il siciliano amor proprio, l'aspirazione alla giustizia e il gusto - ancora siciliano - del diritto nella sua più puntigliosa specie furono le molle che spinsero il perseguitato a controbattere punto per punto alla graduale costruzione di menzogna a suo danno.
Tra le lettere più significative quella - pacata, apparentemente formale, curiale, levigata ma dura - indirizzata al Cardinale Ruffini che, su incarico di Roma, lo aveva appena ricevuto a Palermo.
Eccone alcuni brani:
- "Dopo il colloquio avuto con V. Eminenza, ringrazio il Signore che mi mantiene in quella pace serena che viene solo da Lui".
" Nella mia pochezza io non vedo quale dovere o compito non abbia osservato in tutti gli anni della mia missione pastorale; ma non occorre ripetere che la mia volontà sarà sempre uniformata a quella del Signore (anche se mi si vuole macinare come il grano) e a quella dei miei venerati Superiori. Tuttavia siccome il Signore stesso e la Santa Madre Chiesa non hanno mai negato a nessuno il diritto alla legittima difesa, mi permetto di esporre..."
Dice poi della situazione della diocesi che non è né migliore né peggiore dei quella delle altre diocesi dell'Italia Meridionale e dell'Isola, che qualche sacerdote non va bene ma come dovunque e "se ad ogni prete che manca, dovesse ridondare la colpa su vescovo, anche il Beato Pio X non sarebbe andato sugli altari".
Poi fa cadere il discorso sulle sue presunte infermità:
"L'accenno alle mie condizioni di salute è un mito di menzogna, come tanti altri. La mia vista è ottima (dico ottima) e molto superiore al bisogno; il mio udito è sufficiente e fino ad oggi mi ha consentito di confessare e di conversare regolarmente con Vostra Eminenza e con centinaia di persone ecclesiastiche e laiche, che vengono a conferire. In caso di bisogno, potrei esibire un certificato medico o sottopormi alla visita di un professore scelto da Vostra Eminenza..."
"Se talora mi son trovato esposto a qualche sorda ostilità o calunnia, io persisto nel pensare che ciò sia dovuto al fatto che non mi sono piegato alla pretese insane e losche di tre o quattro preti megalomani, asseconadati da qualche laico esaltato e da una donnina equivoca..."
È il suo errore di valutazione, commenta a questo punto Sciascia, che continua: quella megalomania, quell'esaltazione, erano la normale - in tutta Italia normale - corsa alla detenzione del potere, dal fascismo naturaliter ereditata, cui lui a Patti era di ostacolo: da ostacolo nella sua indifferenza al potere politico, alla politica; nella sua diffidenza o avversione a contaminarsene, a rendersene partecipe o complice. 
Ruffini, che già per il fatto di averlo chiamto a Palermo vuol dire che lo sapeva in condizioni di muoversi, di viaggiare; che lo ha intrattenuto a colloquio senza constatare quei segni di indebolimento della vista e dell'udito che tanto proccupano la Sacra Congregazione Concistoriale; Ruffini gli suggerisce di chiedere un vescovo ausiliare: il che gli consentirebbe di restare a Patti, fittiziamente confessandosi infermo ma di fatto nell'infermità relegandosi. E monsignor Ficarra: 
"Vostra Eminenza mi ha benignamente suggerito di chiedere l'Ausiliare. Secondo il mio modesto parere, che è sempre subordinato a quello dei Superiori, forse sarebbe meglio che io andassi a fare l'Ausiliare ad un altro..."
Era uomo di estremo candore e di inveterata obbedienza: non è da credere - annota Sciascia - che in questa lettera a Ruffini abbia voluto essere duro, ironico, ribelle. Eppure lo è. Lo è perché in lui è penetrato il sentimento della giustizia, l'idea della giustizia, la follia della giustizia. Dell'umana giustizia. E arriva al punto di aspettarsi che di questo sentimento, di questa idea, di questa follia sia compenetrato anche Ruffini:
"Prego vivamente Vostra Eminenza di voler perorare la mia causa col suo cuore di padre, e con la serena convinzione di fare non solo opera di carità, ma di pura giustizia".
La giustizia, come spesso accade, non la fecero gli uomini ma Dio.
Monsignor Ficarra venne in pratica esautorato nel 1957 e nominato arcivescovo di Leontopoli di Augustamnica in partibus infidelium.
Morì improvvisamente nella sua Canicattì il primo giugno1959 mentre stava per uscire di casa, all'età di settantaquattro anni.
E senza nemmeno un giorno di malattia perché - prima che la morte lo cogliesse - Dio e la natura non avevano preso ancora atto della decisione del Cardinal Piazza e della Sacra Congregazione Concistoriale di costitutuirlo in infermità.

Terzine

Una storia di gloria e di misfatti Un popolo d'eroi e di vigliacchi Una genìa di saltimbanchi e matti!